Blog Layout

Il senso di inadeguatezza nelle madri

ELENA MAZZIERI • 27 gennaio 2021

Dal Maternity Blues alla Depressione Post Partum

Nell'ambito del lavoro con i genitori, noto spesso un tema ricorrente: il senso di colpa
Di fronte a difficoltà comportamentali o emotive dei propri figli, i genitori si colpevolizzano e si interrogano rispetto a cosa hanno fatto di sbagliato e cosa possono migliorare. 

Ho notato, inoltre, che le mamme tendono a sentirsi inadeguate nel loro ruolo genitoriale forse più dei padri. 
Il che non significa che gli uomini si sentano dei super-papà infallibili, anzi... Quello che ho notato è che spesso le mamme sentono di più il peso di quella che definirei "perfezione genitoriale". 

Molto spesso si sentono giudicate per i comportamenti inadeguati dei figli, sentono il peso di dover essere perfette, soprattutto nei casi in cui sono loro a trascorrere la maggior parte del tempo in casa ad occuparsi della cura dei bambini. 
E da lì nascono una serie di pensieri disfunzionali che fanno sì che si sentano inadeguate, incapaci, non in grado di crescere i figli.
 
Andando ad indagare, noto spesso che questi pensieri sono insorti molto precocemente, già in gravidanza o nei primissimi giorni di vita dei loro piccoli. 

Durante i nove mesi di gestazione, al crescere del bambino, crescono anche i timori e i dubbi di ogni genitori, mamma o papà che sia. Nella donna, però, vanno ad incidere non poco anche i fattori ormonali. 
Al crescere della pancia, crescono anche le domande rispetto al "come sarò da mamma? Sarò in grado di crescere bene mio figlio?" 
A tutto questo si va ad aggiungere la pretesa di essere genitori perfetti, che non commettono errori, che sono in grado di occuparsi in maniera adeguata del proprio bambino. 

Il desiderio di perfezione, ahimè, non potrà mai essere esaudito. In fondo non esistono genitori perfetti, così come non esistono persone perfette. Che cos'è poi la perfezione? Il ricorrere qualcosa di ideale ma irraggiungibile non può far altro che aumentare il senso di inadeguatezza che stiamo cercando di rifuggire tanto ardentemente. 
Più ricerchiamo la perfezione più questa ci sfugge. E allora ci si sente incapaci, inadeguati, incompetenti, genitori non in grado di compiere il loro mestiere. 

Maledetto sia Winnicott e la sua "madre sufficientemente buona". Perché implica che la mamma possa non essere buona. E se fossi una madre cattiva? Ricominciano i pensieri disfunzionali che non fanno altro che aumentare ansia, tristezza e sensi di colpa. 

Nessun genitore, e soprattutto nessuna mamma sarà mai salva rispetto al pensiero di non essere all'altezza del compito importantissimo che si trova davanti. 
Il problema si pone quando questo senso di inadeguatezza diventa opprimente, al punto da essere pervasi dalla tristezza, dall'impotenza, dai sensi di colpa. Questo comporta una incapacità di relazionarsi adeguatamente con il proprio bambino, con il rischio di conseguenze negative per lo sviluppo psico-fisico dello stesso. 

Come dicevo poco fa, sentirsi impostori in un ruolo che non sappiamo gestire è una cosa molto comune. Spesso questa sensazione arriva molto presto. 

Per me è iniziato dopo un solo giorno dalla nascita di mio figlio. E già... come dicevo nessuno è immune all'inadeguatezza. E nonostante abbia speso ore ed ore nel cercare di sradicare nei genitori il pensiero di essere inadeguati ed incapaci, sono caduta anche io in questa trappola di pensiero. 

Venivo da un parto non più difficile di altri, ma per tutto il tempo una ostetrica mi ripeteva che non stavo facendo abbastanza e che per colpa mia il bambino stava soffrendo. Per quanto comprendessi che stesse cercando di spronarmi, devo dire che già in me il dubbio dell'inadeguatezza si stava instillando: nemmeno era nato ed io già stavo facendo soffrire mio figlio. 
Poi però le cose sono andate bene e quel pensiero se ne è andato.
Il giorno dopo è successo il "fattaccio". In tempo di COVID in ospedale non poteva stare nessuno ed io, sola con il bambino, stanchissima dal parto e dalle notti insonni, mi sono addormentata. Quando mi sono svegliata ho trovato mio figlio piangente in braccio ad una infermiera che cercava di calmarlo. Non so da quanto tempo piangesse, ma se addirittura è dovuta intervenire una infermiera, posso immaginare che stesse gridando da diversi minuti.
Ed eccola lì, la conferma di essere una madre inadeguata, addirittura incapace di sentire il proprio figlio piangere per la fame. Sono saltata giù dal letto con uno scatto che non ho mai fatto in vita mia, profondendomi in infinite scuse per essermi addormentata e non aver sentito il pianto. Mi sentivo proprio una madre degenere, ed il fatto che altri se ne fossero accorti non faceva altro che aumentare la mia vergogna e il mio senso di colpa. 
Tra stanchezza, tempesta ormonale e dolori vari, non riuscivo a scacciare dalla mente il pensiero di essere una "cattiva madre". Da quel momento non ho fatto altro che ricercare conferma rispetto a questo pensiero. E allora osservavo le mie compagne di stanza, entrambe al secondo figlio e quindi, secondo me, mamme esperte. 
"I loro bambini mangiano più del mio, io non sono in grado di farlo crescere!" oppure "Loro non si lamentano per il dolore al seno, io sono una pappamolle incapace di allattare", e così via.
Anche a casa, questi pensieri non mi abbandonavano. Per circa una settimana non riuscivo a togliermi di dosso la sensazione di essere inadeguata. Mi sentivo stanca, irritabile, avevo crisi di pianto e mi sentivo incapace rispetto al mio ruolo di madre.
Ricordo con chiarezza il momento in cui sono riuscita a disputare i miei pensieri disfunzionali. Parlando con mia mamma rispetto al dolore dell'allattamento, lei si è portata una mano al petto e, con espressione dolorante, ha detto "me lo ricordo". Mi si è aperto un mondo. 
Se a distanza di più di trenta anni ancora si ricorda quel dolore, vuol dire che forse proprio proprio pappamolle non sono. 
Nonostante anni di studi, non ero stata in grado di riconoscere la maternity blues. Quello che stavo provando era un senso di tristezza e inadeguatezza normale nel post partum, che tendono a scomparire in circa dieci giorni

Cosa fare in questi casi? 

Cercare supporto da parte dei familiari, parlare ed esprimere i proprio sentimenti ed, infine, ricercare il contatto pelle a pelle con il neonato. 

Non per tutte le donne, però, le cose si risolvono così facilmente. 

Talvolta lo stato di umore alterato può perdurare molto di più di 10 giorni, la mamma fatica a rasserenarsi ma continua ad essere nervosa, irritabile, triste o non volersi occupare del bambino. Possono anche insorgere disturbi del sonno o dell’alimentazione per più di due settimane. In questo caso si parla di depressione post partum, una condizione molto più seria che merita di essere presa in carico da un professionista. 
La depressione post partum può insorgere anche dopo tre o quattro mesi dalla nascita del bambino, il che rende per la donna ancora più difficile parlare di questa condizione. Aumentano i sensi di colpa e di inadeguatezza, esacerbati dal pensiero "non sono più come prima".

Possono inoltre insorgere pensieri negativi nei confronti del figlio, cosa questa che provoca molta vergogna e fa sì che la donna si isoli e si chiudi in se stessa, allontanando anche un eventuale supporto proveniente dal contesto familiare. 
Ammettere di essere stanche, di rimpiangere la vita di prima, di sentirsi arrabbiate nei confronti del bambino quando piange alle 3 di notte, appare disdicevole. Ci si sente messe alla gogna, sotto accusa, additate di essere inadeguate. Tutti si sentono liberi di esprimere la propria opinione (spesso non richiesta) rispetto a come crescere un bambino nel modo giusto. E allora meglio non parlare con nessuno, chiudersi in casa senza chiedere aiuto.

Il problema è che così i pensieri non faranno che peggiorare, ci si sentirà sempre più stanche e sfinite, al limite della derealizzazione. 

Fondamentale è notare i campanelli di allarme e chiedere aiuto ad un professionista. Perché ogni genitore si sentirà sempre inadeguato, ogni genitore rimunginerà sui propri interventi educativi restando nel dubbio del "avrò fatto bene?", ma occorre ricordarsi che non esiste una guida per il genitore perfetto. Nel processo di crescita del figlio anche i genitori maturano ed apprendono con lui, scoprendo cose nuove e nuovi modi di interagire con il figlio. 
L'unica cosa certa è che si faranno errori, ma questo non significa essere "cattivi" genitori. Significa essere umani. 
Restare incastrati nell'idea di essere incapaci, invece, non farà altro che ricercare tutte quelle informazioni che confermeranno il nostro pensiero, aumentando soltanto il malessere e creando difficoltà nella relazione genitori-figli. 

Se pensiamo di non farcela, chiediamo aiuto

La Terapia Cognitivo-Comportamentale è indicata come trattamento d'elezione per la depressione post partum. Insieme con il terapeuta, si andranno ad identificare i pensieri disfunzionali e le emozioni conseguenti, così da introdurre pensieri alternativi che modifichino sia lo stato emotivo che i comportamenti.
Questa terapia, pratica e concreta, è focalizzata sulla risoluzione di problemi centrati sul "qui ed ora". 
Con l'aiuto di un professionista la mamma può superare la condizione di depressione post-partum, migliorando la propria qualità di vita e la relazione con il proprio bambino. 
 

Dott.ssa Elena Mazzieri
Autore: ELENA MAZZIERI 15 febbraio 2021
Sono le due di notte . Siete tranquilli nel vostro letto e state dormendo ormai da un po’. Siete in un bel sonno profondo, quando all’improvviso vi svegliate di soprassalto , con il cuore che batte a mille, il fiato corto, un sudore freddo che scivola lungo la schiena e la convinzione che ci sia qualcosa che non vada. Che sia un infarto? Un ictus? Una qualunque altra malattia? Mentre mille dubbi vi attanagliano la mente, questa sensazione orribile sembra non passare, anzi… Vi sentite sempre peggio e cresce in voi il dubbio che forse state per morire . O impazzire . Bhe, comunque la mettiate, la situazione è tremenda. E pensare che fino a pochi minuti prima stavate dormendo beati! Non sto parlando di un film dell’orrore, anche se la paura forse è anche più intensa. Quello che ho provato a descrivere molto brevemente è l’ attacco di panico notturno . Si tratta di una forma panico intenso e terribile, perché avviene quando ci sentiamo indifesi ed incapaci di reagire : durante il sonno appunto. Solitamente accadono tra l’1.30 e le 3 di notte, nel passaggio dal sonno più leggero ( non-REM ) a quello più profondo (REM). I sintomi più comuni sono tachicardia ed irregolarità del battito cardiaco, difficoltà a respirare , tremori e vampate di calore o brividi di freddo . Si ha una costante paura di morire , al punto da arrivare a temere gli stati di rilassamento ed il sonno stesso. Come posso io pensare di dormire se, quando lo faccio, potrei non svegliarmi più? Allora iniziamo a lottare con il letto e con la notte, monitorando attentamente ogni minimo segnale che viene dal nostro corpo. Tutta la nostra attenzione è diretta verso il nostro corpo . Il cuore sta battendo troppo forte? Il respiro è affannoso? Nell’estremo tentativo di tenere sotto controllo il nostro corpo, questo finisce con il rispondere esattamente con i segnali che stiamo disperatamente cercando di evitare. Controllando ossessivamente il battito cardiaco nella speranza che le pulsazioni non salgano, non facciamo altro che aumentare la nostra preoccupazione. La conseguenza di tutto questo, ahimè, saranno proprio quei battiti più frequenti ed il respiro corto. Gli attacchi di panico avvengono solitamente quando le persone provano sensazioni sulle quali credono di non avere controllo . Queste sensazioni vengono interpretate come minacciose scatenando, di conseguenza, l’ ansia . Peccato però che l’ansia stessa produca quelle sensazioni corporee che poi interpretiamo come minacciose. Ecco qua che si attiva un circolo vizioso da cui sembra difficile uscire. A maggior ragione, la paura della paura diventa più forte se a scatenare i sintomi è il sonno, uno stato sul quale non abbiamo proprio alcun controllo. Non c’è da stupirsi se gli attacchi di panico notturni causano insonnia o deprivazione del sonno. Se l’ultima volta che ho perso il controllo (dormendo) mi sono svegliato con la sensazione di stare per morire, come faccio ad addormentarmi di nuovo? Si arriva a temere ogni stato di rilassamento, ogni stato in cui non riusciamo a prestare attenzione agli stimoli circostanti potenzialmente pericolosi. Essere sempre vigili e attivi significa essere pronti e preparati rispetto ad ogni possibile minaccia. Studi hanno dimostrato che chi soffre di attacchi di panico notturno si sente incapace di reagire di fronte a situazioni di minaccia inaspettate (Smith et al., 2019). In altre parole, non ci si può permettere di mollare la presa, perché se ci rilassiamo bhe… la catastrofe è imminente, e noi non siamo in grado di reagire. Se poi riusciamo ad addormentarci, siamo ipersensibili ad ogni minimo rumore o fastidio interno ed esterno. Ci si sveglia nel cuore della notte, proprio in quell’orario in cui, solitamente, avvengono gli attacchi di panico notturni. A tutto questo si accompagna una difficoltà nel trovare una causa scatenante . In fondo non stavamo pensando a niente di particolare, o se lo stavamo facendo proprio non riusciamo a ricordarlo. Stavamo solo dormendo. Questa incapacità di trovare il trigger, rende l’attacco di panico notturno ancora più spaventoso proprio perché imprevedibile. Potrebbe risuccedere in ogni momento e noi, persi tra le braccia di Morfeo, saremmo nuovamente impreparati e incapaci di reagire. Occorre distinguere tra il pavor nocturnus e gli attacchi di panico notturni . Il primo, molto frequente nei bambini, si verifica nella fase di sonno REM, a differenza degli attacchi di panico che avvengono nella fase non rem. Sebbene spesso le sensazioni sono simili (ansia, tachicardia, sudorazione e respiro corto), il pavor è legato ad un incubo, per cui una volta diventati consapevoli che si trattava solo di un brutto sogno, ci si riaddormenta. Questo non accade nell’attacco di panico, in cui non c’è un ricordo di un sogno e non si riesce mai a ritrovare il sonno. La mancanza di sonno, la difficoltà a rilassarsi ed il costante stato di allerta porta la persona a sentirsi sfinita, con conseguenze rispetto al funzionamento sociale e lavorativo. Purtroppo l’attacco di panico notturno non è così infrequente come si potrebbe pensare. Il 50-70% delle persone che soffre di attacco di panico sperimenta, almeno una volta, un attacco di panico notturno. Una buona notizia però: sono curabili. La psicoterapia Cognitivo-Comportamentale è il trattamento di prima scelta per il disturbo di panico e aiuta le persone a comprendere e gestire gli attacchi di panico. La maggior parte delle persone che segue un trattamento individualizzato ottiene risultati positivi e a lungo termine. Il che non significa che non avremo più attacchi di panico. Che siano notturni o diurni, gli attacchi di panico sono un po’ come il raffreddore: prima o poi lo avremo tutti. La differenza la fa un po’ la biologia ed un po’ le esperienze di vita. Ci sono persone che ai primi freddi iniziano ad avere a che fare con fazzoletti, naso che cola e fumenti, mentre altri possono uscire d’inverno senza sciarpa e non starnutire nemmeno una volta. Se poi lavoriamo all’aperto abbiamo più possibilità di incappare in una giornata piovosa e, quindi, di raffreddarci rispetto a chi lavora al chiuso. Una cosa è certa: nessuno è immune al raffreddore. Abbiamo solo imparato a gestirlo. Se siamo cagionevoli, cerchiamo di non uscire mai senza cappello o sciarpa, sappiamo riconoscere i primi sintomi e sappiamo intervenire con la cura più adatta a noi in caso di influenza. Con il panico funziona un po’ allo stesso modo. Grazie alla psicoterapia si impara a riconoscere e modificare gli stili di pensiero disfunzionali ed i comportamenti maladattivi che mantengono il disagio . Inoltre si apprendono tecniche per gestire e ridurre i sintomi dell’ansia . Insieme con il terapeuta la persona troverà la strategia più adatta a lui per superare gli attacchi di panico notturni e tornare a riposare. Dott.ssa Elena Mazzieri Smith, N. S., Albanese, B. J., Schmidt, N. B., & Capron, D. W. (2019). Intolerance of uncertainty and responsibility for harm predict nocturnal panic attacks. Psychiatry Research 273, 82-88.
Autore: ELENA MAZZIERI 8 febbraio 2021
La sofferenza è uno dei motori principali che spingono le persone ad intraprendere un percorso di psicoterapia . Molto spesso quel dolore che proviamo diventa per noi così spaventoso che ci attiviamo prima ancora di sentirlo. Facciamo di tutto per sbarazzarcene . E non mi riferisco soltanto a comportamenti disadattivi come l’uso eccesivo di alcool o sostanze. Mi riferisco soprattutto a quei piccoli gesti che facciamo quotidianamente senza neanche accorgercene al solo scopo di non sentire quel dolore. Ci teniamo occupati con ogni genere di attività, parliamo con amici, parenti e fidanzati, rimuginiamo, razionalizziamo, pensiamo, facciamo di tutto pur di non stare nella sofferenza. Ciò che ci accomuna è proprio la sofferenza, una qualità tipicamente umana che pensiamo di aver accettato, ma che in realtà ci barcameniamo in tutti i modi per non sentire. Siamo così terrorizzati di fronte alla possibilità di provare il dolore che al primo campanello di allarme ci mobilitiamo per non sentire nulla. Siamo alla ricerca costante di un anestetico, di un antidoto al nostro dolore, come se stare male fosse qualcosa di inaccettabile. Altro che super-uomo. Dobbiamo sempre e soltanto essere al top, non accettando neanche la minima possibilità di essere meno rispetto al 100%. Cosa ci sarà poi di così orribile in quel 90% o, peggio ancora, 50%? Ora vi devo dare una cattiva notizia. Purtroppo in quella sofferenza dobbiamo starci . Ebbene sì… per affrontare un cambiamento , per poter evolvere, occorre davvero accettare la nostra sofferenza, non soltanto far finta. Perché ci crogioliamo nella illusione di aver accettato il nostro dolore, e di aver trovato la spinta per andare avanti. Ma la chiacchierata con l’amico o il collega, in realtà, non significa aver accettato la sofferenza. Aver corso per 10 kilometri allo scopo di scaricare lo stress, non significa aver conosciuto il nostro dolore. Arrancare alla ricerca di una cura che, per magia, ci faccia stare meglio in poco tempo, altro non è che una fuga estrema al nostro star male. Per accettare davvero il dolore, purtroppo, dobbiamo viverlo . Certo, stare male non è bello, tutt’altro. Stare seduti sul vuoto, accogliere quel dolore, quella sofferenza, è una delle cose più spaventose che ci possa accadere. Ma siamo davvero sicuri di non riuscire a gestirlo? Possiamo davvero superare le nostre paure senza davvero affrontarle? Prima di rifuggire dal dolore, è necessario accoglierlo a braccia aperte, comprenderlo, capire da dove viene e stare lì, seduti sul divano con quella sofferenza che ci spaventa così tanto. Soltanto comprendendo cosa ci fa stare male, accettando davvero (e non per finta) quella sofferenza, possiamo trovare le forze per rialzarci e riaffrontare il mondo con nuove risorse. Ascoltiamo quello che le nostre emozioni ci vogliono dire, non temiamole. Accettiamo la tristezza. Accettiamo la sconfitta. Accettiamo il fallimento. Accettiamo la perdita. Accettiamo l’ansia. Accettiamo la paura. Accettiamo tutto ciò che ci fa stare male. Scottiamoci, soffriamo, preoccupiamoci. Facciamo tesoro di questi insegnamenti. E poi rialziamoci. Dott.ssa Elena Mazzieri
Altri post
Share by: